Dialogando con… Emmanuelle Bercot, Regista del Film ‘150 Milligrammi’
- Dettagli
- Categoria principale: OltreNews PressAgency
- Categoria: Cinema
- Pubblicato Mercoledì, 01 Febbraio 2017 15:44
- Scritto da Redazione
- Visite: 9465
Nell'Ospedale di Brest dove lavora, una pneumologa scopre un legame diretto tra una serie di morti sospette e l'assunzione del Mediator, un farmaco in commercio da oltre trent'anni. Dall'inizio in sordina all'esplosione mediatica del caso, la storia ispirata alla vita di Irène Frachon è una lotta di Davide contro Golia per arrivare finalmente al trionfo della verità. La regista francese del film '150 Milligrammi' (La fille de Brest) Emmanuelle Bercot, interpretato da Sidse Babett Knudsen e Benoît Magimel, in una lunga intervista spiega le ragioni per le quali si è interessata a questa storia vera che consente, tra l'altro, di scoprire quali livelli di collusione possono esistere tra certi medici e determinate società farmaceutiche.
Figlia di un cardiochirurgo che ha lavorato all'Ospedale Lariboisière di Parigi, la regista, si sofferma, però, anche sul fatto che ci sono anche tantissimi dottori che lavorano molto bene con i laboratori, senza conflitti di interesse, né corruzione. Ascoltiamola, in questa sua appassionata conversazione, quasi fosse un dietro le quinte del film, svelandoci tanti particolari di scena e non solo... raccontandoci anche Irène Frachon, la sua battaglia e la sua personalità che non le consente di rimanere ferma a guardare senza fare niente...
- Emmanuelle, come le è venuta l'idea di fare questo film?
«Come tutti avevo sentito parlare del caso Mediator, ma senza prestarvi particolare attenzione. Ricordo di essere rimasta colpita da una dichiarazione del deputato Gérard Bapt alla radio, ma la vicenda non mi appassionava più di tanto. Sono state le produttrici di Haut et Court, Caroline Benjo e Carole Scotta, ad interessarsi al libro di Irène Frachon e a chiedermi di leggerlo. Dal momento che spettava ad Irène Frachon decidere a chi preferiva affidare l'adattamento cinematografico del suo libro, ho pranzato con lei a Parigi qualche mese dopo la pubblicazione del libro in Francia, quindi circa sei anni fa. Mi sono subito resa conto che questa donna variopinta sarebbe potuta essere uno straordinario personaggio di finzione. Raccontato da lei, con tutta la sua passione e tutta la sua emotività, il caso assumeva una dimensione completamente nuova. Non era più la storia del Mediator, ma la storia della lotta di questa donna straordinaria».
- Come le è apparsa Irène Frachon durante questo primo incontro?
«Molto naturale, molto spontanea, tutt'altro che politica, una persona normale a cui è capitata una vicenda straordinaria. Non è qualcuno che agisce per calcolo. È dotata di un'energia straordinaria, è una specie di rullo compressore con una grandissima gioia di vivere. Irène ride molto, anche quando racconta cose serie. È alquanto emotiva, passa facilmente dal riso alle lacrime. Ha un linguaggio piuttosto fiorito, che dà l'impressione che sia una persona che commette spesso delle gaffe e che se ne frega delle convenzioni. Dopo questo pranzo, che è avvenuto non lontano dagli uffici del Ministero della Salute, ho detto a Caroline che avrei accettato il progetto a condizione che il film fosse la storia di questa donna. E alla fine abbiamo avuto la fortuna che Irène Frachon ci scegliesse».
- Come ha lavorato con Irène Frachon?
«È stato un processo a tappe diverse. Quando mi sono impegnata per questo progetto, avevo altri due film da fare: Elle s'en va e A testa alta. In un primo tempo, non ho voluto scrivere io la sceneggiatura. Non solo non avevo il tempo di farlo, ma in più non sentivo di avere la forza per affrontare una storia così complessa. La scrittura della sceneggiatura è stata affidata a Séverine Bosschem. Nel giro di breve tempo, siamo andate insieme a Brest. Durante il nostro soggiorno abbiamo trascorso molto tempo con Irène, sia a casa sua che in ospedale. Abbiamo incontrato le persone coinvolte nel caso. Per ore e ore, abbiamo registrato Irène che ci ha raccontato tutta la storia. In linea di massima, un po' meno della metà del film è costituita dall'adattamento del libro. L'altra metà è fatta di tutto quello che ci ha riferito in prima persona la gente di Brest, le confidenze che gli uni e le altre ci hanno voluto fare. Quando siamo tornate a Parigi, abbiamo incontrato i protagonisti parigini della vicenda, in particolare l'epidemiologo Gustave Roussy, la “talpa” del CNAM (Fondo nazionale di assicurazione malattia), Anne Jouan, Gérard Bapt... Per più di un anno, Séverine Bosschem ha lavorato in modo indipendente. Ha redatto le migliaia di documenti che Irène le aveva affidato e ha finito col padroneggiare perfettamente l'aspetto tecnico della vicenda. In seguito, ma questa volte insieme, abbiamo definito le grandi linee della narrazione. In totale la scrittura del film è durata circa tre anni. Io ho partecipato ad ogni fase in modo da ridefinire la costruzione, da circoscrivere il racconto e da sviluppare i diversi personaggi. Il tutto mentre lavoravo contemporaneamente agli altri miei film. Poi, qualche mese prima dell'inizio delle riprese, ho riscritto la sceneggiatura per appropriarmi del testo. Durante tutto questo tempo, Irène è stata molto attenta e disponibile a darci consigli o ad aiutarci a correggere errori e imprecisioni. Proprio come Antoine, il ricercatore che è stato di grande aiuto a Irène durante tutto il caso, e Anne Jouan, la giornalista di Le Figaro, che ci hanno anch'essi aiutati. È stata molto scrupolosa nel descrivere la realtà dei fatti».
- Ad un certo punto si sarà posta la delicata questione di decidere chi avrebbe interpretato il ruolo di Irène Frachon.
«È una domanda che mi sono fatta subito, prima ancora di scrivere la sceneggiatura ed ero incapace di trovare una risposta. Non riuscivo a pensare a nessuna attrice francese che fosse giusta per incarnare il personaggio. Potete immaginare la mia preoccupazione: per quasi tre anni, mentre scrivevo la sceneggiatura, non trovavo qualcuna che potesse essere Irène Frachon. La soluzione me l'ha data Catherine Deneuve. Una sera che abbiamo cenato insieme - avevamo da poco ultimato le riprese di A testa alta - mi ha parlato dell'attrice danese protagonista della serie televisiva Borgen - Il potere. “Dovrebbe guardare la serie, è un'attrice che sarebbe straordinaria per il suo ruolo e credo che parli francese”, mi disse. Il giorno dopo mi sono immersa nella visione di Borgen - Il potere. E ho anche trovato un'intervista rilasciata da Sidse Babett Knudsen in cui effettivamente si esprimeva in un francese piuttosto buono, malgrado l'accento straniero. Da lì in avanti, è successo tutto molto velocemente. Caroline Benjo e io siamo andate a Copenhagen. L'incontro è andato molto bene. Sidse ha letto la sceneggiatura, che allora era ancora in fase di lavorazione. E poco dopo ha accettato di interpretare il ruolo. Molto francamente, se Catherine Deneuve non me l'avesse suggerita, nessuno di noi avrebbe pensato a lei per il personaggio! A quel punto ci restava solo da informare Irène Frachon, che fin dall'inizio era molto curiosa di sapere chi l'avrebbe incarnata. Abbiamo di nuovo pranzato insieme e, a dire il vero, eravamo molto in ansia. Non avrebbe trovato strana la nostra scelta di un'attrice danese di cui non aveva mai sentito parlare? È successo l'esatto contrario. Non appena abbiamo pronunciato il nome di Sidse si è messa a gridare. Era… al settimo cielo! Ovviamente noi non potevamo immaginarlo, ma l'intera famiglia Frachon è appassionata di Borgen - Il potere. Per Irène, essere interpretata da Sidse era un sogno assoluto».
- Dal momento che la scelta dell'attrice protagonista era un aspetto capitale, non si è preoccupata di restare fedele alla realtà: avrebbe potuto cercare un'attrice bretone…
«Tanto per cominciare, Irène Frachon non è bretone!» afferma la Bercot con una smorfia sorridente «Ho capito subito che non sarebbe stato un problema. La lotta che conduce questa donna è universale. A prescindere dalle sue origini, la forza è la stessa. Invece, ho temuto che dispiacesse a Irène Frachon. Dopo tutto, lei è francese e si tratta di una storia francese. Ma dal momento che è una donna dotata di una grandissima intelligenza, di ampie vedute e di una profonda onestà intellettuale, non si è minimamente seccata».
- Irène Frachon non ha mai fatto mistero di essere protestante. La sua fede è anzi un aspetto importante, costitutivo, della sua personalità. Ora, per un motivo che la preghiamo di spiegarci, questo fattore non appare nel film…
«Ha ragione, la religione di Irène Frachon è un parametro estremamente importante. Se è riuscita a reggere il colpo è per una parte merito della sua fede e per l'altra è merito dell'incredibile nucleo famigliare che la circonda. Tuttavia, la fede di Irène è completamente assente nel film e la famiglia è presente solo in filigrana. La ragione? Avrebbe avuto un senso solo se non fosse stato un aspetto aneddotico e in due ore non si ha il tempo di raccontare più di tanto. Inoltre, volevo rendere questa storia il più universale possibile e al tempo stesso evitare di dare un eccessivo rilievo a Irène. Preciso peraltro che lei non ha mai espresso il desiderio di veder citata nel film la sua appartenenza religiosa. Ma ha voluto prestare a Sidse la sua croce ugonotta in modo che potesse portarla durante tutte le riprese. Dunque questo lato del personaggio non è totalmente assente».
- Ricorda la prima volta in cui Irène Frachon e Sidse Babett si sono incontrate?
«Certo, anche se non ho assistito ai primi istanti del loro incontro. Ero arrivata di proposito un quarto d'ora dopo. Il luogo di ritrovo era un ristorante non molto distante dagli uffici della produzione a Parigi. Quando sono entrata, ho visto che si era già stabilita una grande complicità tra loro. Sono entrambe molto estroverse e dotate di una vitalità eccezionale. Quindi le loro energie sono subito entrate in contatto. Ovviamente Sidse non conosceva Irène Frachon, né sapeva del caso Mediator, ma si è subito lanciata nella scoperta e nell'assimilazione del personaggio che avrebbe interpretato».
- Trova che ci sia una somiglianza fisica tra loro?
«No.» Sottolinea ridendo Emmanuelle. «Ho abbandonato quasi subito l'idea di trovare un'attrice che assomigliasse ad Irène, in primo luogo perché non esiste. La somiglianza tra Sisde e Irène sta nell'energia che sono entrambe capaci di produrre e nella loro natura molto “claunesca”».
- Emmanuelle, nella vita, le era già capitato di frequentare l'ambiente medico?
«Sì, spesso. Infatti penso che sia stato uno dei motivi per cui Irène Frachon ha avuto voglia di affidarmi la sua storia. Mio padre era cardiochirurgo all'ospedale Lariboisière di Parigi. Per molto tempo, io stessa ho desiderato di fare il chirurgo. Il mio passatempo preferito il mercoledì e il sabato, quando non dovevo andare a scuola, era andare a guardare mio padre mentre operava. Fin dai dieci/dodici anni di età, ho passato molto tempo in sala operatoria. Verso i quindici anni, ho fatto uno stage in vari reparti chirurgici a Lariboisière. Sono sempre stata affascinata dall'ambiente ospedaliero. Mi piace andare in ospedale, mi ci sento bene. Penso che Irène sia stata sensibile a questo».
- Quindi prima di scegliere di frequentare La Fémis, voleva di studiare medicina?
«Sì, più o meno fino all'età di quindici anni. A volte mio padre mi metteva in guardia, spiegandomi che si tratta di un mestiere molto duro per le donne. Anche per gli uomini del resto: non lo vedevo quasi mai. Ricordo che mio padre era molto incavolato con i laboratori farmaceutici, con le loro lobby, con il loro potere. Era un tema di cui parlavamo spesso a casa».
- Nel film ci sono due sequenze straordinarie da un punto di vista medico: un intervento chirurgico a cuore aperto e un'autopsia. Cominciamo dall'operazione. Lei aveva dunque già tutti i punti di riferimento necessari?
«Per la scena in sala operatoria, effettivamente mi muovevo in un terreno conosciuto, il che tuttavia non mi ha impedito di rinfrescarmi la memoria andando ad assistere a un intervento alle valvole cardiache prima di girarla. Durante le riprese ho ritrovato tutte le antiche sensazioni. È stato molto eccitante per me filmare un'operazione a cuore aperto, con una vera équipe, quella dell'Ospedale Universitario di Brest: un vero chirurgo, dei veri anestesisti, una vera ferrista... Solo l'operazione era finta, ma sembra assolutamente autentica! Non fosse stato altro che per questioni di asepsi con le attrezzature cinematografiche, non potevo correre il rischio di filmare un vero intervento. Avrei potuto utilizzare le installazioni delle videocamere che si trovano spesso nei blocchi operatori, ma avrei avuto solo delle immagini video. Per me era fondamentale poter scegliere le mie angolazioni, quindi abbiamo subito optato per una soluzione di ripresa classica con tre macchine da presa, non potendo chiedere di ripetere più volte le stesse azioni. Per l'interno del corpo, siamo ricorsi agli effetti speciali».
- Ha fatto una scelta quasi tattile: mostrare, quasi toccare gli organi, il cuore in particolare, con la macchina da presa.
«Era essenziale che si vedessero le devastazioni organiche e fisiche provocate dal Mediator, in modo che lo spettatore potesse visualizzare e sentire gli effetti causati da questo farmaco nella carne di certi soggetti. Ma ad ogni modo, io tendo sempre a fare dei film il più vicino possibile alla realtà fisica, ai corpì».
- Parliamo della scena dell'autopsia. Anche in questo caso ha fatto ricorso agli effetti speciali...
«Esatto! Di sicuro non abbiamo ucciso l'attrice! Non so se sia consentito, ma so che sarebbe stato estremamente difficile per me filmare una vera autopsia, il corpo di qualcuno a sua insaputa. Prima del film, non ne avevo mai vista una, quindi ho chiesto di assistere a una. È un'esperienza, come dire… metafisica. Nella mia vita ci sarà un “prima” e un “dopo” questa autopsia. È al tempo stesso vertiginoso e insostenibile».
- Ciò nonostante, ha deciso di far condividere questa esperienza agli spettatori…
«L'autopsia era nella sceneggiatura fin dall'inizio. È stato un momento molto importante per Irène, una sorta di rivelazione, un lampo. Dopo averne vista una, ho avuto voglia di far condividere agli altri la mia esperienza. Anche se so benissimo che alcune persone si copriranno gli occhi, volevo ancora una volta che il pubblico potesse provare la fisicità delle cose. E Dio sa quanto, al montaggio, l'abbiamo edulcorata rispetto a tutto il materiale girato!».
- È raro vedere al cinema una simile scena di autopsia. È impossibile non reagire davanti allo squartamento e allo smembramento del corpo.
«Era importante trovare il giusto equilibrio per non provocare il rifiuto nello spettatore. Mostriamo alcune cose, ma non le peggiori. La scena si concentra sui sentimenti che prova Irène vedendo quello che ha subito il corpo della sua paziente».
- Prima di iniziare le riprese, ha guardato film o serie televisive che trattano di questo genere d'inchiesta?
«Ho guardato poche serie televisive. In cambio ho guardato molti film d'inchiesta. Per me, Erin Brockovich - Forte come la verità è il riferimento fondamentale. Nel suo genere, è un film perfetto. Ho anche guardato o riguardato film come Tutti gli uomini del presidente, Norma Rae, L'arte di vincere, L'uomo della pioggia, Il verdetto...».
- La scrittura e la scansione delle scene del film sono molto serrate, risolutamente “all'americana”...
«Quanto meno ho cercato di tendere verso la capacità che hanno gli americani di raccontare questo tipo di storie. Senza dubbio la mise en scene è un po' diversa rispetto a quella dei miei film precedenti. Avevo un obiettivo di efficacia che solitamente non ho».
- Nel film, un personaggio dice: “Si può trovare solo quello che si cerca”. Potremmo aggiungere: “Si può filmare bene solo quello che si sente in modo profondo”.
«Ho bisogno di appassionarmi delle storie che racconto. Più che con il caso Mediator è con il personaggio di Irène Frachon che ho trovato un legame molto forte».
-Il film è anche un terribile atto di accusa contro l'amministrazione sanitaria. In questo senso, si tratta anche di un film politico, di denuncia, che va al di là del ritratto di questa "Erin Brockovich di Brest".
«Io mi nascondo dietro a Irène. È lei che denuncia, io non faccio altro che seguire il suo percorso. Non denuncio nulla che non abbia già denunciato lei in prima persona. Tutti i fatti menzionati nel film sono stati accertati».
- Jacques Servier, il potente titolare del laboratorio che porta il suo nome, non appare nel film. Per quali ragioni?
«Ci siamo attenuti al punto di vista di Irène Frachon. Non è mai andata al laboratorio Servier. Non ha mai incontrato Jacques Servier. È evidente che avrei comunque potuto mostrare il ”cattivo”, come si fa spesso in questo genere di film in cui si scontrano due controparti agli antipodi. Ho un po' esitato, ma alla fine ha prevalso la nostra volontà di raccontare la storia esclusivamente dal punto di vista di Irène. E, di conseguenza, non vediamo nulla che non abbia visto lei stessa».
- Guardando il suo film, molto spettatori scopriranno la collusione che può esistere tra certi medici e certe società farmaceutiche. Prima di interessarsi a questo caso e malgrado suo padre gliene avesse parlato, sospettava che queste pratiche potessero assumere tali proporzioni?
«Non sono ingenua, conosco il potere delle case farmaceutiche. Ma so anche che ci sono tantissimi medici che lavorano molto bene con i laboratori, senza conflitti di interesse, né corruzione. Come dice Irène nel film: “Anch'io collaboro con le case farmaceutiche e sono favorevole all'innovazione terapeutica.” Detto questo, ci sono alcuni fatti in questa vicenda che mi hanno davvero molto sorpresa. Per esempio, il fatto che Antoine, il ricercatore che ha aiutato Irène a corredare di un fondamento scientifico il suo dossier, non fosse riconosciuto dall'INSERM (l'Istituto nazionale francese di salute e ricerca medica) semplicemente perché alcuni dipendenti di Servier facevano parte della giuria. È allucinante, no?»
- Nel film, qualcuno dice: “Non c'è una vera lotta senza la paura”. La paura - la paura di Irène - è onnipresente. Sente anche lei questa paura?
«No, per niente. Non sono una che si spaventa facilmente. Irène parla molto della paura che ha provato. C'è da dire che ha vissuto dei momenti davvero duri. Per esempio, quando è stata condannata a togliere il sottotitolo del suo libro, “Quanti morti?”. Quando racconta questo episodio, si percepisce che ha toccato il fondo. È stato difficile rendere questo nel film. Tuttavia, anche se si tratta di un film di genere, non volevo appesantirmi troppo su una paranoia che era la sua, sulla sensazione di avere contro il mondo intero, di essere circondata di nemici. A maggior ragione perché non ha mai subito minacce fisiche, né lei in prima persona, né i suoi figli. Avremmo dovuto distorcere la realtà per mettere in scena questo aspetto sullo schermo e io ho sempre avuto l'obiettivo di aderire ai fatti realmente accaduti in questa vicenda, senza estrapolarli né distorcerli».
- Irène ha spesso dichiarato che la sua paura derivava dal fatto che temeva che potessero prendersela con la sua famiglia, con i suoi figli. Era per lei un'eventualità insopportabile, al punto che se si fosse verificata, sarebbe stata disposta ad abbandonare tutto. Una parola su suo marito?
«È un uomo che ama sua moglie in modo incondizionato ed è un sentimento reciproco. È una famiglia incredibile, non ne avevo mai vista una così prima d'ora! È una famiglia da sogno! Sono profondamente uniti e si ammirano reciprocamente. Quando facevo leggere la sceneggiatura, diverse persone mi hanno detto che una famiglia del genere non esiste, non può esistere. E invece non solo esiste - e può testimoniarlo tutta la troupe del film - ma è grazie a questa straordinaria coesione famigliare che Irène è riuscita a reggere. Non era sola».
- Irène Frachon ha detto a più riprese che ci vorrebbe una legge che punisca coloro che attaccano i whistleblower, chi denuncia un'irregolarità. Suppongo che lei sia d'accordo?
«Sì, lo sono al cento per cento. I whistleblower dovrebbero essere protetti e dovremmo punire coloro che li attaccano. Eppure, è da poco accaduto l'esatto contrario nel corso di un processo in Lussemburgo. I whistleblower sono stati condannati. Un tribunale ha potuto quindi dire a chi ha denunciato un'irregolarità: “Ha fatto bene a rivelare certi fatti, ma dal momento che è vietato, subirà una condanna”. È disgustoso!».
- A suo parere, che cosa muove il coraggio di Irène Frachon? Il suo acuto senso di giustizia?
«Il suo puro istinto di medico, la sua vocazione autentica. Lei che non ha mai cercato di fare carriera ed è, a detta di tutti, un ottimo medico. Forse non sarà una grande scienziata, ma è sicuramente un medico eccellente e possiede fiuto e genialità nelle sue diagnosi. Penso che se è riuscita a portare sino in fondo la sua battaglia il merito stia nella sua immensa empatia nei confronti delle vittime e anche nella sua deontologia. Irène Frachon è una Giusta, una donna pura. Nel suo grande candore, non vede il male. Fa il medico unicamente per assistere e curare le persone, non è alla ricerca di potere e dunque non ha mai avuto paura di compromettersi».
- Come è riuscita Sidse Babett Knudsen a incarnare il ruolo fino a questo punto?
«Prima delle riprese non aveva parlato molto con Irène. Era impegnata su un set negli Stati Uniti e questo l'ha obbligata ad arrivare solo una settimana prima dell'inizio delle riprese. Il mio desiderio era di arrivare a dar conto sia dell'incredibile energia sia della fantasia di Irène Frachon, che è a tutti gli effetti quel che si dice un ‘personaggio’ nella vita reale. Con Sidse abbiamo molto lavorato a questo aspetto. E insieme abbiamo cercato di restituire la camminata e il linguaggio corporeo di Irène. Sidse ha impiegato un po' di tempo per riuscire ad afferrare il personaggio e a scivolare nei panni di questa donna inesauribile che sa anche essere sfinente. La sua parlantina, la sua vitalità, la sua fantasia lessicale, la sua gioia di vivere in ogni circostanza… Non abbiamo mai cercato un'imitazione fedele, ma senza dubbio Sisde non aveva avuto abbastanza tempo per osservare Irène. In seguito le è bastato passare un pomeriggio insieme alla famiglia Frachon perché scattasse qualcosa. Anche il lavoro sui costumi ha contribuito al processo di incarnazione. Del resto io volevo assolutamente che il ritmo del film fosse sostenuto e Sidse ha fatto un lavoro colossale sull'eloquio e la pronuncia dei dialoghi».
- Emmanuelle, trova che ci siano delle analogie tra Irène Frachon e Birgitte Nyborg, l'eroina di Borgen - Il potere?
«Birgitte Nyborg può essere inquietante. Si occupa di politica, è assetata di potere. Penso che sia questa la grande differenza con Irène Frachon che al contrario se ne infischia altamente. Irène cerca di fare in modo che la giustizia trionfi ed è una cosa molto diversa. Inoltre non è mossa da motivazioni personali. Però, in entrambe troviamo un po' lo stesso tipo di energia, malgrado sia esercitata per ragioni diverse».
- Per quanto riguarda le luci, che tipo di scelta ha fatto?
«Dovevamo filmare numerose scene, in particolare in interni, piuttosto complesse se non quasi impossibili da illuminare in ambienti poco cinematografici. Dal momento che abbiamo girato a un ritmo sfrenato, è capitato che non avessimo il tempo di realizzare la luce stilizzata che avrei voluto. Quando abbiamo avuto un po' di tempo, abbiamo cercato di drammatizzare le scene e le scenografie per mezzo delle luci. Come, per esempio, le sequenze in cui si vede la “talpa”, il tizio del CNAM: l'universo luminoso non ha nulla a che vedere con l'atmosfera degli uffici di un ente amministrativo».
- Insieme al suo montatore ha lavorato a un montaggio molto serrato che imprime un grande ritmo al film.
«La scansione delle scene era già molto incalzante dal concepimento alle riprese del film ed è stata una volontà di partenza ben precisa. Ci sono tantissime inquadrature e angolazioni diverse. È la prima volta che mi cimento con un film di genere. Volevo che la storia avanzasse e che il pubblico venisse trascinato dal ritmo dell'inchiesta».
- Dopo 'A testa alta', ritrova Benoît Magimel.
«È un po' il mio attore feticcio! Volevo che interpretasse Antoine, il braccio destro di Irène, colui che le ha apportato le competenze scientifiche che non aveva. Sapevo che Benoît sarebbe riuscito a trasmettere la bontà, la dolcezza, l'umanità, la traccia di infanzia di Antoine. Irène ha avuto anche molta fortuna nell'incontrare sul suo cammino durante tutta la vicenda persone di grande qualità. Lei è stata la signora della guerra, ma ha avuto al suo fianco dei soldati magnifici. Il film è anche questo, la storia di una squadra. Come recita uno dei dialoghi: "Senza di loro, lei non avrebbe combinato niente. Ma loro non avrebbero fatto quello che ha fatto lei"».
- 'A testa alta', '150 Milligrams': due film in qualche modo ossessionati dall'idea di giustizia.
«Assolutamente. Sono ossessionata dall'idea di giustizia fin dall'infanzia».
- Si considera una cineasta impegnata?
«No, non particolarmente impegnata o militante, a onor del vero. Ho le mie opinioni, le mie idee, le mie ribellioni, ma di rado si trasformano in azioni. Solo dietro alla macchina da presa mi impegno sino in fondo. E se faccio il ritratto di una donna impegnata, come in questo caso, non vuol dire che lo sia io stessa».
- Eppure i suoi film hanno un vero contenuto politico...
«Tanto meglio se i miei film mi permettono di investirmi e di esprimermi un po' più di quanto io non faccia da semplice cittadina. Non sono estranea alle storie che racconto e ne sposo interamente il punto di vista».
- Ha mai pensato di poter interpretare lei stessa Irène Frachon?
«Mai! L'idea non mi ha nemmeno sfiorata. In ogni caso, ho deciso di non recitare più nei film che dirigo. Adoro lavorare con gli attori. Dirigere me stessa equivale a privarmi del piacere di lavorare con qualcun'altra!».
- In fondo, Irène Frachon è una vera eroina?
«Assolutamente sì! Penso che l'enorme risonanza che ha avuto il caso dipenda da come è lei, dalla sua personalità, ma anche dal fatto che è una donna».
- Ed è una donna che ha diretto il film e sono delle donne che lo hanno prodotto… « Esatto!». Annuisce sorridendo Emmanuelle.
- Eppure, non possiamo dire che Irène Frachon sia una femminista.
«Stavo per dirlo io. Non sono sicura che lo sia, strettamente parlando. A dire il vero, non lo so. È una donna coraggiosa. Forse era sensibile al fatto che altre donne volessero raccontare la sua storia».
- L'aspetto pedagogico è stato un pensiero costante nella scrittura del film? Non è facile comprendere a fondo e dunque far comprendere concetti tanto complessi…
«Era importante che persone che non sanno nulla del caso del Mediator potessero aver voglia di andare a vedere 150 Milligrams. Durante la scrittura della sceneggiatura, questa preoccupazione di divulgazione era molto presente. Come far capire agli altri? Abbiamo cercato di semplificare al massimo. All'inizio del film la scrittura è leggermente tecnica, ma si tratta di un aspetto che in seguito scompare completamente. In fondo, penso che non sia gravissimo, in questo tipo di film, non capire tutte le sfumature. Molto presto ti appassioni alla battaglia di Irène, a quello che lei prova, al grado di energia che deve tirar fuori per fare avanzare la situazione. Gli aspetti tecnici diventano una preoccupazione minore. Non è così grave se gli spettatori non colgono tutte le sottigliezze di questa vicenda. Spesso, nei film d'inchiesta, anche nei migliori, non capiamo ogni dettaglio. Prendiamo, per esempio Insider - Dietro la verità di Michael Mann. È un film che adoro, non capisco la metà dei particolari, ma me ne frego, seguo con partecipazione i personaggi, ho voglia di andare avanti con loro».
- Centinaia di morti avrebbero potuto essere evitate se i laboratori Servier e le autorità sanitarie avessero fatto correttamente il loro lavoro di farmacovigilanza. Come possiamo qualificare l'atteggiamento della giustizia in merito a questo caso? È stata lenta, troppo lenta? Indulgente, troppo indulgente?
«Per il momento, di fatto, il processo penale è costantemente rinviato. Speriamo che prima o poi qualcosa succeda. Anche le vittime hanno diritto di avere giustizia».
- Irène Frachon a volte cita una frase di Albert Einstein: “Il mondo è un posto pericoloso in cui vivere, non a causa di coloro che compiono azioni malvagie, ma a causa di coloro che stanno a guardare senza fare niente”.
«Lo penso profondamente. Siamo in pochi a poterci identificare con Irène Frachon. Al contrario, siamo in tanti a poterci identificare con coloro che, senza fare nulla, stanno a guardare gli altri che risolvono i problemi».
Grazie ad Emmanuelle Bercot per la sua disponibilità e per essersi soffermata sulle mille sfaccettature, dentro e fuori il set, di questa storia vera. Siamo certi che anche il pubblico italiano, soprattutto quello che non conosce nulla del caso Mediator, rimarrà sconcertato dalle vicende e dalle testimonianze raccontate dal film, ora nei nostri cinema con Bim Distribuzione, e si stupirà, rimanendone attratto, della tenacia e del coraggio espressi dalla dottoressa Irène Frachon e dal suo collega ricercatore Antoine interpretati da Sidse Babett Knudsen e Benoît Magimel.
Fonte: Made in Com - BIM Distribuzione
Reportage correlati:
- Nei cinema 150 Milligrammi, una storia vera, un film denuncia e scandali legati ad un farmaco sospetto
- Video: Report & Clip & Trailer in Italiano
- Photo Gallery